Dopo la COP 29, rischiamo di perdere ogni leva. Partecipare alla COP senza affrontare la questione degli ostaggi equivale a condonare le azioni di Baku: torture fisiche, mutilazioni senza anestesia, fame, tutte pratiche contrarie alle convenzioni internazionali sul trattamento dei prigionieri. Photo: Valérie Vrel

Una delegazione internazionale impegnata nella difesa dei diritti umani sta attraversando l’Europa per sensibilizzare i leader e l’opinione pubblica sulla situazione di 23 ostaggi armeni detenuti a Baku, in Azerbaigian. Sabato scorso, la delegazione ha fatto tappa a Marsiglia come parte della sua campagna di sensibilizzazione internazionale, dopo aver visitato Bruxelles, Parigi e Lione, e prima di recarsi a Londra e Berlino. L’obiettivo è ottenere la loro liberazione prima dell’inizio della COP 29 sul cambiamento climatico, che si terrà a Baku.

Anahit Akopian, presidente del Comitato per la difesa della causa armena (CDCA) alla Federazione Rivoluzionaria Armena (FRA), si rivolge direttamente ai leader europei: “Non potrete affermare di non sapere”. In un contesto di crescenti tensioni, la delegazione, che include l’ex ministro di Stato dell’Artsakh Artak Beglaryan e gli esperti di diritti umani Arman Tatoyan e Karnig Kerkonian, denuncia le violazioni sistematiche dei diritti umani commesse dall’Azerbaigian nei confronti della popolazione armena del Nagorno-Karabakh.

Il loro obiettivo è chiaro: mobilitare la comunità internazionale per esercitare pressione diplomatica sul governo azero affinché rilasci immediatamente gli ostaggi, tra i quali vi sono ex alti funzionari dell’Artsakh, compresi ex presidenti della Repubblica, ministri degli Affari Esteri e della Difesa. Anahit Akopian avverte dell’urgenza della situazione: “Dopo la COP 29, rischiamo di perdere ogni leva”. Le testimonianze dei sopravvissuti dalle prigioni di Baku sono agghiaccianti: torture fisiche, mutilazioni senza anestesia, privazione di cibo, tutte pratiche che violano le convenzioni internazionali sul trattamento dei prigionieri e sottolineano l’urgenza di un intervento internazionale. “Partecipare alla COP senza affrontare la questione degli ostaggi significa avallare questi atti”, conclude.

Diverse figure politiche francesi, tra cui Anne Hidalgo, Valérie Pécresse, Xavier Bertrand, oltre a Benoît Payan e Renaud Muselier, hanno già annunciato la loro intenzione di boicottare la COP 29, denunciando una contraddizione evidente tra gli obiettivi ambientali dell’evento e le pratiche repressive del regime di Baku.

La delegazione ha tenuto un dibattito pubblico al Teatro Act 12, con l’obiettivo di sensibilizzare i cittadini su questa crisi umanitaria. “Dobbiamo esporre le condizioni disumane cui sono sottoposti questi ostaggi, così come l’intento genocida del governo azero, che cerca di cancellare l’identità armena dal Nagorno-Karabakh attraverso un pulizia etnica”, spiega l’esperto di diritti umani Arman Tatoyan. Nel 2022, c’erano ancora 120.000 armeni che vivevano nella regione; oggi ne rimangono solo 14, intrappolati da un blocco implacabile. Gli altri sono stati costretti a fuggire o sono stati deportati, una realtà che costituisce una palese violazione dei diritti fondamentali, compreso il diritto alla libertà di movimento e alla sicurezza personale.

Questa campagna di advocacy mette in luce anche il greenwashing orchestrato dal regime azero per migliorare la propria immagine sulla scena internazionale. “L’Azerbaigian è un attore chiave nell’industria petrolifera e del gas, e il 90% della sua economia si basa sugli idrocarburi”, osserva Artak Beglaryan. “Permettere a un tale regime di ospitare la COP 29 è paradossale, soprattutto considerando che questo governo si impegna in violazioni dei diritti umani nei confronti della propria popolazione e delle minoranze etniche”.

Il CDCA chiede anche un riconoscimento internazionale della situazione degli armeni dell’Artsakh e sostiene il loro ritorno nelle terre ancestrali, attualmente minacciate dalle forze azere. “Truppe azere sono già state dispiegate nelle regioni meridionali dell’Armenia, e il rischio di nuove offensive militari è imminente. La comunità internazionale deve prendere misure concrete per prevenire questa escalation”, avverte la delegazione, sottolineando l’urgenza di agire prima che la situazione si deteriori ulteriormente.

Il Diritto al Ritorno: un Principio Fondamentale Scritto nel Diritto Internazionale

Il rapporto inizia ricordando i principi giuridici che fondano il diritto al ritorno, un concetto chiave nel diritto internazionale umanitario e nei diritti umani. Questo diritto è saldamente ancorato in diversi documenti fondamentali, tra cui la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, il cui articolo 13 afferma che «ogni persona ha il diritto di lasciare qualsiasi paese, compreso il proprio, e di ritornare nel proprio paese». Questo principio è ulteriormente rafforzato dall’articolo 12 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1966, che stabilisce che nessuno può essere privato arbitrariamente del diritto di entrare nel proprio paese. Il rapporto fa anche riferimento alla Convenzione relativa allo Status dei Rifugiati (1951), che stabilisce le basi giuridiche per il ritorno volontario come soluzione preferita per i rifugiati.

Secondo il rapporto, questi testi forniscono una chiara base legale per sostenere il diritto al ritorno degli armeni sfollati di Artsakh, costretti a lasciare le loro case durante i conflitti violenti con l’Azerbaigian. Nel 2023, un’offensiva militare su larga scala condotta dall’Azerbaigian ha portato all’esodo di oltre 100.000 armeni da Artsakh verso l’Armenia, uno spostamento che molti hanno definito pulizia etnica.

Una Giurisprudenza e Precedenti Internazionali a Sostegno

Il diritto al ritorno non è un concetto nuovo nel diritto internazionale, e i precedenti sono numerosi. Il rapporto cita esempi in conflitti così vari come quelli della Palestina, della Bosnia, del Kosovo e del Myanmar. In ciascuno di questi casi, il diritto al ritorno dei rifugiati è stato riconosciuto come una componente essenziale del processo di pace e giustizia. Inoltre, organizzazioni come Human Rights Watch e meccanismi giuridici come la Corte Internazionale di Giustizia (CIJ) hanno contribuito al riconoscimento di questo diritto.

Un momento chiave di questa battaglia giuridica si è verificato il 17 novembre 2023, quando la Corte Internazionale di Giustizia, investita dall’Armenia, ha emesso una decisione cruciale nel caso Armenia contro Azerbaigian. La Corte ha ordinato all’Azerbaigian di consentire agli armeni di Artsakh di tornare a casa «in modo sicuro, senza ostacoli e in condizioni dignitose». La CIJ ha anche messo in evidenza le evidenti violazioni dei diritti umani commesse dall’Azerbaigian, tra cui l’ostruzione dell’accesso umanitario e le restrizioni alla libera circolazione di persone e beni nel corridoio di Lachin, l’unica via che collega l’Armenia ad Artsakh.

Questa decisione della CIJ rappresenta un punto di svolta nella lotta per il riconoscimento e la protezione del diritto al ritorno degli armeni di Artsakh. Essa riafferma che, anche in tempo di guerra, i diritti fondamentali delle persone sfollate devono essere garantiti, imponendo all’Azerbaigian obblighi chiari.

Reazioni Internazionali e Diplomazia a Favore del Ritorno

Il riconoscimento del diritto al ritorno non si limita ai soli quadri giuridici. Dalla guerra del 2020, e soprattutto dopo gli eventi drammatici di settembre 2023, la comunità internazionale ha espresso il suo sostegno a questo diritto nel contesto degli sforzi diplomatici volti a risolvere la crisi. Nell’ottobre 2023, durante un incontro quadrilaterale a Granada, che ha riunito Armenia, Francia, Germania e Unione Europea, è stato sottolineato che «i rifugiati armeni devono essere liberi di esercitare il loro diritto di ritorno nelle loro case senza condizioni, sotto supervisione internazionale e con rispetto per la loro storia, cultura e diritti umani».

Molte istituzioni internazionali, come le Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa e il Parlamento Europeo, hanno anche preso posizione su questa questione. Il Parlamento Europeo, in particolare, ha adottato diverse risoluzioni dal 2021 ribadendo l’importanza del diritto al ritorno nella risoluzione del conflitto tra Armenia e Azerbaigian. In una risoluzione adottata nel marzo 2024, il Parlamento europeo ha chiesto garanzie di sicurezza per gli armeni di Artsakh che desiderano tornare a casa e ha invocato sanzioni contro l’Azerbaigian per le sue azioni militari nella regione.

La Francia, Avanguardia nella Difesa del Diritto al Ritorno

La Francia ha svolto un ruolo centrale nella difesa del diritto al ritorno degli armeni di Artsakh. Fin da novembre 2020, il Senato francese ha adottato una risoluzione storica che chiedeva il riconoscimento della Repubblica di Artsakh e la garanzia del ritorno dei rifugiati. Questa risoluzione è stata seguita, nel gennaio 2024, da una seconda dichiarazione che condannava le azioni dell’Azerbaigian e chiedeva l’implementazione di sanzioni economiche e diplomatiche contro Baku.

La ministra degli Affari Esteri, Catherine Colonna, ha preso una posizione ferma denunciando i «gravi crimini» commessi dall’Azerbaigian durante la sua offensiva militare di settembre 2023, definendo questi atti come una «violazione flagrante dei diritti degli armeni di vivere in pace sulle loro terre ancestrali». Colonna ha ribadito che gli armeni sfollati hanno «il diritto di tornare nella loro patria» e che questa questione sarà portata al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Un Sostegno Transatlantico: Gli Stati Uniti e il Canada si Mobilitano

Gli Stati Uniti sono stati anche in prima linea nella difesa del diritto al ritorno degli armeni di Artsakh. Diverse figure politiche americane, sia repubblicane che democratiche, hanno sostenuto questo diritto e chiesto azioni concrete. Nel marzo 2024, oltre 60 membri del Congresso statunitense hanno firmato una lettera indirizzata al segretario di Stato Antony Blinken, esortando il governo a fare pressione sull’Azerbaigian per garantire il ritorno sicuro dei rifugiati armeni.

Anche il Canada ha espresso il proprio sostegno senza riserve. Nell’ottobre 2023, durante una visita a Erevan, la ministra degli Affari Esteri canadese, Mélanie Joly, ha affermato che il diritto al ritorno degli armeni deve essere «al centro di qualsiasi processo di pace sostenibile». Ha anche sottolineato che si stanno valutando sanzioni contro l’Azerbaigian se quest’ultimo continuerà a ostacolare i diritti degli armeni.

L’attuazione del diritto al ritorno degli armeni di Artsakh è considerata da molti esperti e attori politici come una condizione essenziale per la pace e la stabilità nella regione del Caucaso. Senza questo diritto, i rischi di nuove violenze, di un’accentuazione delle tensioni etniche e di discriminazioni rimarranno elevati. Il rapporto della Fondazione per la Causa Armena sottolinea l’importanza di misure concrete per accompagnare questo ritorno, inclusa la protezione del patrimonio culturale armeno, la supervisione internazionale delle zone interessate e garanzie di sicurezza per le popolazioni sfollate.

Il Parlamento svizzero: un modello di risoluzione per il ritorno degli armeni dall’Artsakh

Aggiungiamo che il problema è già stato discusso dal Comitato di politica estera del Parlamento svizzero, che ha incaricato il Consiglio federale di organizzare un forum internazionale di pace sul conflitto del Nagorno Karabakh il prima possibile, ma non oltre un anno. L’obiettivo è garantire un dialogo aperto tra i rappresentanti dell’Azerbaigian e degli armeni del Nagorno-Karabakh, che si terrà alla presenza di una supervisione internazionale o di importanti attori internazionali, per discutere la questione del ritorno sicuro e congiunto della popolazione armena storicamente sfollata”.
Nella motivazione dell’iniziativa, si menziona che a seguito dell’attacco militare dell’Azerbaigian nel settembre 2023, il Nagorno Karabakh, ad eccezione di alcune persone che non sono in grado di muoversi, è stato completamente spopolato.

“Temendo il ripetersi del Genocidio armeno, come avvenne nel 1915, la popolazione armena autoctona (dell’Artsakh) fu costretta a lasciare le proprie case in pochi giorni. Da allora, la regione ha subito una documentata pulizia etnica. Il patrimonio culturale armeno, come chiese, monasteri e cimiteri, viene sistematicamente distrutto o trasformato con il pretesto della “ristrutturazione”. Nonostante questi gravi sviluppi, gli armeni del Nagorno-Karabakh continuano a rimanere fedeli alla loro decisione di tornare in patria, di ricevere garanzie di sicurezza dalla comunità internazionale, di determinare il loro futuro politico in modo indipendente e di esercitare il diritto all’autogoverno democratico”, si legge nel commento del Comitato di politica estera del Parlamento svizzero.

Il diritto al ritorno degli armeni dell’Artsakh non è quindi solo una questione legale o politica, ma anche un banco di prova per la comunità internazionale e la sua capacità di proteggere i diritti umani.

Fonte principale: laprovence.com